C’è una costante tra i Presidenti americani democratici in tema di politica estera: il tentativo di dialogo con l’Iran. Da Carter in poi, il rapporto tra Washington e Iran alterna momenti di chiusura e distensione quasi coincidenti con il succedersi degli inquilini alla Casa Bianca, a dimostrazione di quanto il paese islamico pesi ancora nella politica – e nella coscienza – americane. Fu proprio Carter, d’altra parte, ad assistere impassibile e inerte alla più grande rivoluzione dell’ultimo quarto del Ventesimo secolo, quella che riportò l’ayatollah Khomeini in patria, liberando il Paese dall’occidentalismo forzato dei Pahlavi e da una secolarizzazione dei costumi mai davvero accettata. In quel febbraio del 1979, gli Stati Uniti persero un importante alleato in Medioriente, regalando la più grande miniera di gas naturale al mondo all’influenza sovietica e ammaccandosi un po' agli occhi del mondo durante la crisi degli ostaggi. La perdita del grande paese sciita influenzò in maniera determinante le scelte americane negli anni a venire, caratterizzate da una certa ambiguità (vedere caso Iran-Contras) e contraddittorietà (vedere caso Iraq).
L’Iran, insomma, è per gli americani come una di quelle fidanzate che ti mollano senza preavviso: la ami e la odi, ma non la dimentichi. Tanto più se le occasioni di incontro-scontro si moltiplicano, come successo ai due ex alleati a partire dal 2002, a seguito dell’emergere della questione del nucleare.
Joe Biden, che già in campagna elettorale aveva espresso la propria posizione sul futuro dell’accordo sul nucleare denunciato dall’ex Presidente Donald Trump, ha manifestato nei giorni scorsi la volontà di ritornare al negoziato, seppur in un contesto mutato e parzialmente compromesso.
Biden intende ricucire lo strappo di Trump dell’8 maggio 2018 che ha determinato la ripresa del programma nucleare iraniano (con l’uscita parallela di Teheran dal JCPOA e la fine delle ispezioni sui siti nucleari) e il ripristino delle sanzioni economiche americane, il cui effetto è stato dirompente sulla già fragile economia iraniana. La strada che intende seguire, ben conscio dell’impossibilità di riportare le lancette dell’orologio al 2016, è stata tracciata nel passaggio del suo intervento alla Conferenza Internazionale per la Sicurezza di Monaco lo scorso 19 febbraio: “Dobbiamo lavorare insieme per convincere l'Iran a fermare il suo programma nucleare. Gli Stati Uniti offriranno all'Iran una chiara scelta tra maggiori pressioni e isolamento oppure incentivi significativi: continuate sul vostro percorso attuale, e ci sarà maggiore isolamento; abbandonate il vostro programma nucleare illegale e il sostegno al terrorismo, e ci saranno incentivi significativi”.
Due sono gli elementi su cui si giocherà il risiko tra Usa e Iran. Il primo, i tempi: gli Stati Uniti chiedono che l’Iran fermi innanzitutto il suo programma nucleare; da parte loro, l’Iran pretende prima lo stop alle sanzioni sulla base del principio “chi ha infranto il patto prima deve per primo porvi rimedio”. Il secondo tema è legato proprio alle sanzioni che rappresentano, per gli Stati Uniti, uno strumento di leva per costringere Teheran a rientrare nell’accordo e rendono (forse) irrealizzabile il disegno iraniano di una rimozione senza condizioni. Eppure, è proprio su questo elemento che i riformisti di Hassan Rouhani si giocano il successo nelle prossime elezioni presidenziali del 18 giugno: urge, infatti, una ripresa degli investimenti straniera e il salvataggio di un’economia praticamente al collasso. Il rischio è che i conservatori, invocando il fallimento della linea soft di Rouhani, riescano a convincere la popolazione iraniana della necessità di una strategia più ostile con il Grande Satana.
Diplomazia e tempismo saranno le chiavi per superare l’impasse e giungere a una soluzione rapida cui entrambi i Paesi, seppur per ragioni diverse, aspirano.
A un mese dalla sua proclamazione, Joe Biden si inserisce nel solco dei suoi predecessori inserendo la questione iraniana tra le priorità dell’agenda politica. Fondamentale sarà, per il presidente americano, fare memoria di quanto accaduto negli ultimi quarant’anni per ricalibrare la propria strategia con Teheran. Come scriveva il grande poeta iraniano Saa’di di Shiraz “Chiunque acquisisca conoscenza e non la metta in pratica, somiglia a colui che ara il proprio terreno e non lo semina”.