Il mondo ha assistito ieri all’attesissima cerimonia di giuramento del 46esimo Presidente degli Stati Uniti, d’America, Joseph Robinette Biden, from Delaware. Accanto a lui, Kamala Harris, la vera celebrity della nuova amministrazione americana, prima donna Vice Presidente della storia, from California con origini indo-giamaicane.
L’entusiasmo per l’arrivo del duo-democratico alla Casa Bianca ha ricordato quello che caratterizzò l’avvento di Barack Obama nel 2009, insignito pochi mesi più tardi del Nobel per la Pace “non per i risultati ma per gli ideali”, come lui stesso affermò. La cerimonia di ieri a Washington, seppur con le ben evidenti differenze di pubblico e cerimoniale, ha ricordato a molti “A new birth of freedom”, l’evento super patinato di insediamento di Barack Obama; e non solo per la presenza dei medesimi protagonisti politici. Allora furono Aretha Franklin e Bruce Springsteen a intonare i classici del patriottismo americano, ora Lady Gaga e Jennifer Lopez, le due self-made woman della musica pop. Quest’ultima ha inorgoglito la comunità ispanica concludendo la sua performance con “una nacion con libertad y justicia para todos”, richiamando il futuro cambio di passo di Biden sulla questione migratoria. Fa sorridere ricordare che Trump dovette appellarsi alle stelline del talent American Idol per la colonna sonora del suo Inauguration Day nel 2018.
Il filo che lega l’amministrazione Biden con quella di Obama è sembrato ieri volersi ricomporre all’ombra del Lincoln Memorial, quasi a voler significare che i cinque anni appena trascorsi siano stati una parentesi da chiudere al più presto. L’assenza di Trump alla cerimonia non ha fatto che interpretare iconograficamente tale pensiero, mentre l’immediata firma dei 17 Executive Order ha reso chiara l’urgenza di procedere rapidamente a smantellare l’operato del vecchio inquilino repubblicano.
Sono in molti, ora, a domandarsi se i prossimi cinque anni saranno un Obama-ter o se “Spleepy Joe” sarà in grado di affermare una propria linea politica, libera da condizionamenti e del tutto personale.
Il discorso inaugurale riprende alcuni temi cari all’ex Presidente democratico, dagli appelli insistenti alla democrazia al ruolo del popolo, ai temi del lavoro. Come nel 2009 dopo G.W. Bush, Biden si trova a dover recuperare una certa credibilità internazionale, elemento che dovrebbe forse portare il partito repubblicano a ridiscutere i criteri di selezione dei suoi ultimi leader.
Del tutto inedito è, invece, il richiamo all’unità della nazione. Un concetto che Biden, tormentato da un’America profondamente divisa, riprende con insistenza. “Oggi tutta la mia anima è in questo” – ha detto Biden “riunire l’America, unire il nostro popolo, unire la nostra nazione. E chiedo a ogni americano di unirsi a me in questa causa […] con l’unità possiamo fare grandi cose, cose importanti”. Non sarà facile ricucire le ferite dei disordini sociali che hanno caratterizzato la coda dell’amministrazione Trump. Su questo terreno si gioca, d’altra parte, tutta la credibilità del neo-Presidente e la solidità della più grande democrazia del mondo, non a caso definita “preziosa quanto fragile”.
Chi potrà allora caratterizzare i prossimi cinque anni sarà la numero due, Kamala Harris, sulla quale i riflettori sono puntati da tempo. Una figura inedita e moderna, incarnazione di un femminismo di valore, che non ha bisogno del me-too o della gavetta del “first-ladysmo”. A lei spetta l’arduo compito di personalizzare l’amministrazione Biden e, chissà, inaugurare un nuovo corso per la politica americana sotto il segno de “Sebbene io sia la prima donna a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima”.
God bless America, always.